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L' ultima immagine

L' ultima immagine di me prima della malattia è quella di una ragazzina nel parco della città vicina al suo paese. E' con i suoi amici. Non ricordo chi l'ha accompagnata lí. Ha una insolita debolezza nelle gambe e la testa stranamente un po' le gira, anche se non ne è del tutto consapevole. Quello che sa è che questo parco è grandissimo, il suo corpo è comunque scattante e oggi lei e gli amici lo stanno attraversando tutto in linee disordinate. E sa che la spinta che ha preso da quando ha superato l'infanzia è una propulsione irrefrenabile. Quello che sente nettamente nel corpo è la possibilità del futuro. Un posto immenso, promettente, plasmabile a suo piacere, il posto per lei. Quello di cui è sicura è la sua lucidità, di giorno in giorno più autonoma, la sua allegria e la granitica complicità che ha con la sua "migliore amica". Non ci sono zone d'ombra, nella sua vita, se non la fessurina tra i denti davanti, che da un po' di tempo non le piace, e che da lì a poco verrà ristretta dagli elasticini. Meno di un mese dopo questa ragazzina sarà chiusa in un reparto di un ospedale vetusto assieme a diverse pazienti anziane, alcune delle quali claudicanti o con arti amputati. Starà bevendo un latte scuro e senza zucchero in un piatto di plastica. Si starà allenando a iniettarsi l'insulina centrando con le siringhe i sederi delle anziane e a bucarsi le dita da sola, tante e tante volte al giorno, con una lancetta di metallo affilata come una lama. Avrà come perimetro per le sue nuove ripetitive camminate il giardino dell'ospedale. Le strade rumorose e caotiche le sembreranno ogni giorno più lontane, dall'altra parte della rete. Questa ragazzina qualche settimana dopo uscirà, una mano in quella della madre, nell'altra una valigetta di plastica grigia con i suoi nuovi strumenti di vita: le siringhe, il glucometro, le bustine di zucchero, i fogli quadrettati su cui tradurre in numeri la propria esistenza. Non sa niente di quel che sarà. Non ha altri strumenti che le spiegazioni della dottoressa e la riserva di un ottimismo che, negli anni, tante volte si rivelerà ingenuo e salvifico. Se le dicessi che dovrà attraversare tante di quelle zone nere quante non potrebbe mai nemmeno immaginare, non mi capirebbe. Se le dicessi che la sua malattia diventerà più semplice da gestire solo dopo più di venticinque anni, penserebbe che sono una povera sfigata. Se le dicessi che troverà la salvezza nella scrittura di sé, darebbe all'informazione un significato diverso. Allora taccio. La lascio nell'istante in cui il buio di una sera fredda d'inverno sta calando sulla città, per mano a sua madre, il cancello dell' ospedale appena dietro le spalle, due figure sottili immobili nell'attimo prima di attraversare la strada. Davanti a loro la città, confusa e per la prima volta un po' spaventosa. La lascio lì e la guardo a una certa distanza senza dirle niente di importante. Luisa Codeluppi